5 Incontro 11 febbr. 2022

L’amore familiare vocazione e via di santità

nell'accoglienza della sofferenza

1. Introduzione all’argomento

«Vorrei toccare un aspetto molto comune nella vita delle nostre famiglie, quello della malattia. È un'esperienza della nostra fragilità, che viviamo per lo più in famiglia, fin da bambini, e poi soprattutto da anziani, quando arrivano gli acciacchi. Nell'ambito dei legami familiari, la malattia delle persone cui vogliamo bene è patita con un "di più" di sofferenza e di angoscia. È l'amore che ci fa sentire questo "di più". Di fronte alla malattia, anche in famiglia sorgono difficoltà, a causa della debolezza umana. Ma, in genere, il tempo della malattia fa crescere la forza dei legami familiari. La debolezza e la sofferenza dei nostri affetti più cari e più sacri, possono essere, per i nostri figli e i nostri nipoti, una scuola di vita e lo diventano quando i momenti della malattia sono accompagnati dalla preghiera e dalla vicinanza affettuosa e premurosa dei familiari. E dobbiamo dire grazie al Signore per quelle belle esperienze di fraternità ecclesiale che aiutano le famiglie ad attraversare il difficile momento del dolore e della sofferenza. Questa vicinanza cristiana, da famiglia a famiglia, è un vero tesoro per la parrocchia; un tesoro di sapienza, che aiuta le famiglie nei momenti difficili e fa capire il Regno di Dio meglio di tanti discorsi! Sono carezze di Dio.»

[Papa Francesco, Udienza generale 10 giugno 2015]

2. Entriamo nel clima di preghiera

dal Salmo

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

Lontane dalla mia salvezza le parole del mio grido!

Mio Dio, grido di giorno e non rispondi;

di notte, e non c'è tregua per me.

Eppure tu sei il Santo,

tu siedi in trono fra le lodi d'Israele.

In te confidarono i nostri padri,

confidarono e tu li liberasti;

a te gridarono e furono salvati,

in te confidarono e non rimasero delusi.

Sei proprio tu che mi hai tratto dal grembo,

mi hai affidato al seno di mia madre.

Non stare lontano da me,

perché l'angoscia è vicina e non c'è chi mi aiuti.

Tu mi hai risposto!

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,

ti loderò in mezzo all'assemblea;

perché egli non ha disprezzato

né disdegnato l'afflizione del povero,

il proprio volto non gli ha nascosto

ma ha ascoltato il suo grido di aiuto.

I poveri mangeranno e saranno saziati,

loderanno il Signore quanti lo cercano;

il vostro cuore viva per sempre!

3. Ascoltiamo il Signore che ci parla

dal libro di Giobbe

[1,1.3; 2,1.3-13;3,1-2.11.13; 7,5-6;13,3.15.24; 42,1-2.5]

1.1Viveva nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe, integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. 3Quest'uomo era il più grande fra tutti i figli d'oriente.

2.1 Accadde, un giorno, che i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore, e anche Satana andò in mezzo a loro a presentarsi al Signore. 3 Il Signore disse a Satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male». 4Satana rispose al Signore: 5 «Stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti maledirà apertamente!». 6 Il Signore disse a Satana: «Eccolo nelle tue mani! Soltanto risparmia la sua vita». 7 Satana si ritirò dalla presenza del Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere. 9 Allora sua moglie disse: «Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!». 10 Ma egli le rispose: «Tu parli come parlerebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?». In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra. 11 Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui: Partirono, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. 12Levarono la loro voce e si misero a piangere. 13 Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore.

3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. 2 Prese a dire: 11 «Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? 13 Così, ora giacerei e avrei pace, dormirei e troverei riposo.

7.5 Ricoperta di vermi e di croste polverose è la mia carne, raggrinzita è la mia pelle e si dissolve. I miei giorni scorrono più veloci d'una spola, svaniscono senza un filo di speranza.

13.3 Ma io all'Onnipotente voglio parlare, con Dio desidero contendere. 15Mi uccida pure, io non aspetterò, ma la mia condotta davanti a lui difenderò! 24 Perché mi nascondi la tua faccia e mi consideri come un nemico?»

Dopo che il Signore gli ebbe parlato in mezzo all'uragano 42,1Giobbe prese a dire al Signore: 2 «Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile. 5 Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto».

4. Riflettiamo sul testo

Il libro di Giobbe appartiene all'insieme dei libri sapienziali, che si caratterizzano per la ricerca della sapienza intesa come senso della vita. Si presenta sicuramente come un'opera complessa, dove si parla della rivolta dell'uomo di ogni tempo e di ogni luogo [Giobbe non appartiene al popolo d'Israele] di fronte alla realtà della vita, al non senso della sofferenza e del male, al mistero della morte. Racconta un cammino di fede che porta l'uomo a incontrare Dio anche nel momento della sofferenza; lo scopo del libro diventa, quindi, non tanto quello di spiegare il dolore, ma soprattutto di mostrare come sia possibile viverlo in maniera diversa, grazie all'intervento della grazia, mettendo in evidenza il valore della fede.

All'inizio del libro viene presentata la figura di Giobbe: si dice di lui che è un uomo moralmente integro, senza difetto alcuno e, dal punto di vista materiale, ha avuto molto successo nella vita [lo dimostrano i numerosi figli, l'abbondanza di servi e di ricchezze]. È l'uomo realizzato, sia dal punto di vista umano che religioso, è colui che vive bene il rapporto con Dio, con gli altri e con il mondo.

La rettitudine di Giobbe viene riconosciuta da Dio quando Satana, arrivato al suo cospetto, mette in dubbio la autenticità della sua fede nel Signore: è troppo facile e comodo avere fede quando non ti manca nulla e tutto procede al meglio. Con la sola riserva di risparmiargli la vita, il Signore accetta la sfida di Satana, dandogli la possibilità di mettere alla prova il suo servo Giobbe, che viene colpito da una serie di calamità. Dopo avergli tolti i beni e i figli, Satana lo colpisce nella carne: una piaga infetta, che gli ricopre tutto il corpo, lo costringe ad allontanarsi dalla città, a vivere emarginato ai bordi della società [«stava seduto in mezzo alla cenere»]. Davanti a Giobbe rimane solo la moglie, che sembra ormai rassegnata a una situazione giudicata senza sbocchi e che esprime, nelle parole rivolte al marito, la sua frustrazione per l'abbandono di Dio; cerca, anzi, di indurlo a rinnegare la propria fede [«Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!»]. L'uomo replica alla domanda insensata della moglie rimanendo saldo nella sua fede e invitandola a non biasimarne il comportamento [«Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?»]. Giobbe continua a riconoscere la sovranità dell'agire di Dio, nella buona come nella cattiva sorte.

Entrano in scena, a questo punto, tre amici che accorrono da Giobbe con l'intenzione di stargli vicino e consolarlo; il dolore dell'amico, però, è talmente grande che essi non riescono più a trovare parole di conforto: alle grida e ai pianti subentra il silenzio perché non vi sono parole che possano aiutare l'amico.

Il silenzio viene squarciato dall'urlo di Giobbe: le parole di rabbia e di maledizione fanno intuire l'immensità e l'assurdità del suo dolore. Nel maledire il giorno della nascita ci sono tutta la sua angoscia e la sua disperazione: se non fosse nato, ora potrebbe avere un po' di respiro dalle sofferenze che sta provando; ora la vita gli appare insopportabile e faticosa e la morte viene vista come l'unica via di uscita da una situazione senza speranza.

Nella sua disperazione, Giobbe sente la necessità di qualcuno con cui relazionarsi, qualcuno su cui riversare tutta la sua rabbia e la sua angoscia ... e così si rivolge a Dio. E lo fa con parole ora di lamento e protesta, ora di supplica e preghiera. In tutto questo, la fede di Giobbe, anche se vacilla, non crolla; non chiude la porta in faccia al Signore, lo affronta a tu per tu, quasi in maniera sfacciata: la sua non è certo una fede che teme la lotta, nemmeno con Dio.

In questo grido sordo emergono, non solo l'esperienza di isolamento e di solitudine da parte delle persone più care, ma anche e soprattutto la sensazione di essere stato completamente abbandonato di Dio.

Il grido di Giobbe non rimane senza risposta: Dio decide di dialogare con lui, di interrogarlo e di indicargli l'approdo della fede.

Sebbene Dio gli parli, le sue parole non sono la risposta ai molti interrogativi: i suoi problemi rimangono irrisolti, la sua sofferenza continua, è ancora invalido e disprezzato nella sua solitudine. Giobbe, però, adesso è tutta un'altra persona. La conoscenza che prima Giobbe aveva di Dio non era falsa, ma era indiretta e incompleta ( «per sentito dire»). Adesso conosce Dio in un modo nuovo: ha sperimentato la sua presenza e ha ascoltato la sua voce; la conoscenza è diventata una profonda esperienza vissuta («i miei occhi ti hanno veduto»).

Ecco l'approdo della sua fede: l'esperienza di un Dio che non è assente, che è nella storia e che cura tutto e tutti con amore.

5. Meditiamo considerando la nostra realtà di coppia

La sofferenza: pietra d'inciampo o generatrice di nuove energie?

Arriva sempre, prima o poi, il momento in cui la famiglia si scontra con la realtà del dolore: può essere a causa di un problema economico, per un conflitto di coppia, una criticità nel rapporto con i figli, un fallimento, una malattia cronica o un lutto; in ogni caso, si tratta di un momento in cui viene interrotto il clima quotidiano, fatto del solito tran-tran ma anche di una relativa serenità. È un'esperienza che pone domande forti sulla propria vita: il passato viene riletto, il presente viene vissuto con angoscia e il futuro sembra improvvisamente chiudersi.

Questa situazione arriva, inoltre, a coinvolgere l'intera famiglia: la sofferenza e la malattia possono diventare una minaccia per la felicità familiare. Quando l'uomo soffre, ci si domanda chi sia il responsabile; la rabbia che spesso accompagna la malattia non è tanto per il fatto che si soffre, quanto perché non si capisce il motivo di tale sofferenza. Il dolore pone una domanda esistenziale, a cui dare risposta e, visto che spesso risposte non ve ne sono, diventa una pietra d'inciampo.

In certi casi, però, la sofferenza che arriva a spezzare gli equilibri domestici può svegliare o ri-svegliare energie di vita nuova, generando possibilità inaspettate di crescita individuale, coniugale e familiare, umana, spirituale e anche producendo frutti di "grazia": la capacità di dono reciproco, di comunione più profonda, di sensibilità più intensa e autentica. Spesso si tratta di dimensioni che vengono riconosciute "a posteriori" quando si riesce a tornare con lo sguardo interiore al tempo di sofferenza che si è vissuto e se ne riconoscono i germi di bene.

La famiglia nella prova: sofferenza condivisa

Di fronte al dolore di Giobbe, quali sono stati gli atteggiamenti di chi gli stava intorno? La moglie, anziché sostenerlo e condividere la situazione, non capisce la fede del marito e lo invita a rinnegare Dio; gli amici, arrivati per consolarlo, non riescono più a trovare parole, non sanno come destreggiarsi con la sua sofferenza e arrivano addirittura ad accusarlo. Questa constatazione acuisce il dolore di Giobbe perché, proprio nei momenti di tribolazione, si ha sete di amicizia vera, totale e incondizionata.

Non è facile stare davanti al dolore dell'altro, soprattutto se si tratta di una persona cara: ci si sente impotenti. Come comportarsi allora per essere "prossimo" di colui/colei che sta attraversando il momento della prova e della sofferenza? Quello che fece il samaritano della parabola evangelica (cfr. Lc 10,25-37) offrire affetto, ascoltare, dare compagnia, stare accanto; vale a dire, non passare al largo.

E quando siamo noi a soffrire? Come dobbiamo comportarci? È Giobbe stesso a indicarci la strada: non facciamo finta che tutto vada bene, non cerchiamo di rifuggire il dolore, sperando che tutto si risolva da solo ... concediamoci il tempo delle lacrime e delle urla, delle domande strazianti: «Perché proprio a me?»; permettiamoci il lusso di stare male e di sfogarci; consentiamo all'altro di starci accanto nel nostro dolore. Chiediamo e accettiamo aiuto da chi ci ama e desidera prendersi cura di noi.

Gli alti e bassi della fede

Giobbe è provato da tormenti fisici e morali indicibili, che gli fanno provare quanto sia grande e difficile sopportare la sofferenza. Egli si scaglia quasi con violenza contro il disegno divino, non accettandolo e non comprendendolo; maledice il giorno della sua nascita e invoca la morte. Ciò che maggiormente tormenta Giobbe è la sua solitudine completa. Ma a dispetto di questa situazione, egli resta aggrappato alla certezza che Dio interverrà. Le sue stesse parole sono un alternarsi di sentimenti contraddittori: infatti, ora si lascia andare, rassegnato e stanco; ora compete con Dio; ora assume un atteggiamento di sfida; in tutto questo, però, rimane inalterata la fiducia in Dio.

Nella solitudine possiamo sperimentare manifestazioni ineffabili della presenza di Dio, ma anche i momenti più terribili di dubbio, le ore di maggior depressione spirituale e l'angoscia indescrivibile di sentirci abbandonati.

Dio, però, non è mai lontano. La solitudine, insieme alle delusioni, ci fanno maturare, ci liberano da una fiducia eccessiva in noi stessi e negli uomini, dalla necessità assoluta di appoggiarci su di loro.

6. Domande per riflettere

Sicuramente nella nostra vita coniugale o familiare ci sono stati momenti di prova. Come li abbiamo affrontati? Quali reazioni abbiamo avuto? Quali nuove consapevolezze di noi abbiamo raggiunto?

Quanto è difficile stare accanto a un amico o a un familiare che soffre? Riusciamo a rimanere in silenzio e a trovare in esso una possibilità di condivisione feconda?

Nel momento del dolore e della fatica, riusciamo ad accettare di apparire fragili, a mostrare la nostra sofferenza, a esternare i nostri sentimenti così da permettere all'altro di consolarci e aiutarci?

Proviamo a ricordare una situazione in cui abbiamo sperimentato il silenzio e la lontananza di Dio. Dentro questo buio si sono fatte strada la sensazione e la percezione che egli era li, pronto a raccogliere le nostre domande?

Quante volte trovandoci di fronte a dolori indicibili, a situazioni prive di significati, a profondissime delusioni e solitudini cupe abbiamo sentito, anche solo per un momento, vacillare la nostra fede e la nostra speranza?

7. Preghiera finale

Chiesi a Dio di essere forte

per eseguire progetti grandiosi:

egli mi rese debole per conservarmi nell'umiltà.

Domandai a Dio che mi desse la salute

per realizzare grandi imprese:

egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio.

Gli domandai la ricchezza per possedere tutto:

mi ha fatto povero per non essere egoista.

Gli domandai il potere perché gli uomini

avessero bisogno di me:

egli mi ha dato l'umiliazione

perché io avessi bisogno di loro.

Domandai a Dio tutto per godere la vita:

mi ha lasciato la vita perché potessi apprezzare tutto.

Signore, non ho ricevuto niente di quello che chiedevo,

ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno

e quasi contro la mia volontà.

Le preghiere che non feci furono esaudite.

Sii lodato o mio Signore, fra tutti gli uomini

nessuno possiede quello che ho io!

Kirk Kilgour

Kirk Kilgour è un pallavolista statunitense, rimasto paralizzato nel 1976 a seguito di un incidente durante un allenamento. Ha letto personalmente questa preghiera davanti al Papa durante il Giubileo dei malati a Roma, 11 febbraio 2000.